Quando si parla dei limiti di distanza tra i fabbricati bisogna fare attenzione alla giurisprudenza. Vediamo, ad esempio, il caso della finestra con le grate.
Secondo quanto stabilito dalla sentenza 1168/19 della seconda sezione del Tar Lombardia, la finestra con le grate di ferro costituisce una semplice luce e non una vera e propria veduta. Si tratta infatti di un’apertura praticata solo per dare aria e luminosità ai locali e posta a un’altezza tale dal pavimento che non consente di affacciarsi sulla proprietà del vicino. Di conseguenza, non si applicano le norme di cui all’articolo 8 del decreto ministeriale 1444/68: la distanza minima di dieci metri fra gli edifici vale soltanto per le pareti finestrate.
Il Tar Lombardia si è espresso accogliendo il ricorso e annullando lo stop al permesso di costruire deciso dal comune. Non c’è dubbio che sia legittimato a farlo anche il figlio del proprietario dell’immobile, che ne è usufruttuario, perché l’atto incide direttamente sul diritto reale di cui è titolare. Trova ingresso in particolare il secondo motivo di censura, secondo cui le aperture incriminate possono essere considerate non vedute in base all’articolo 900 c.c. ma mere luci di cui all’articolo 902 cc: consentono sì di vedere e guardare frontalmente (la cosiddetta inspectio), ma non anche di affacciarsi, vale a dire di guardare non solo di fronte, ma anche obliquamente e di lato (prospectio), in modo da assoggettare il fondo vicino altrui a una visione mobile e globale.
Nel caso specifico, le strutture individuate durante il sopralluogo nei locali sono “finestrature con interposte parti apribili ed entrambe munite di grate in ferro”. Ma non consentono di affacciarsi, tanto che per poter guardare fuori servirebbe una scala o almeno uno sgabello. E d’altronde i tecnici del comune non prendono posizione sulla natura delle aperture durante l’ispezione.
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