
Il progetto di Condivivere.casa è nato nel 2020 durante la pandemia, con le città deserte e la socialità urbana completamente annullata. Un progetto abitativo innovativo che si basa sul concetto di housing adattivo, dove lo spazio domestico è capace di modificare le proprie dimensioni e adattarsi a seconda delle diverse esigenze nel corso della vita: esigenze di crescita nel caso di coppie giovani, ma anche esigenze di decrescita per le coppie più grandi. idealista/news ha intervistato il creatore di questa iniziativa, l'architetto Joseph Di Pasquale, che spiega cos'è l'housing adattivo, cosa lo differenzia dalle altre forme di socialità abitativa condivisa e illustra il primo esperimento di questo tipo nato in un edificio di Milano grazie a una campagna di crowdfunding.
Quando è nata e in cosa consiste l'iniziativa "Condivivere.casa"?
Condivivere.casa è una iniziativa che prende vita nel 2020 durante la pandemia, con le città deserte e la socialità urbana completamente annullata, da un gruppo di imprenditori e professionisti animati dalla volontà di rigenerare un immaginario positivo ed attraente all’abitare urbano in senso relazionale, con un modello abitativo innovativo che superasse la rigidità dei prodotti attuali, diventano dinamico e adattabile alle mutevoli esigenze della vita di singoli e famiglie, in un’ottica collaborativa e multi-generazionale, capace di riattivare un rapporto identitario e relazionale più stabile con lo spazio urbano di prossimità e con la vita di quartiere per bambini, famiglie, singoli ed anziani.
2. Cos'è l'housing adattivo?
Il mercato attuale offre oggi delle soluzioni abitative “orizzontali” e cioè pensate per categorie omogenee di persone: student housing per gli studenti, co-living per i giovani professionisti, condomini per le famiglie, senior living per il periodo post lavorativo. Non a caso questo approccio si nutre di terminologie anglosassoni essendo di fatto l’importazione di un modello che fa della casa un “prodotto" e dei residenti dei "consumatori". L’housing adattivo di Condivivere.casa parte invece dal considerare che quello studente, quel giovane professionista, quella coppia giovane e quella coppia più avanzata in età, oltre ad essere “categorie” di consumatori di prodotti abitativi sono alla fine la stessa persona che progredisce e va avanti nella sua vita.
Di conseguenza invece di pensare a prodotti diversi e specializzati ma in fondo rigidi, si è voluto concepire uno spazio abitativo unico pensato come un "perimetro domestico” facilmente modificabile nel tempo, che si possa estendere, ridurre, condividere e riconfigurare seguendo le esigenze della vita sia dei singoli che delle famiglie.
Cosa differenzia questo tipo di spazio abitativo da uno spazio di cohousing?
Il cohousing è molto ben identificato e classificabile dal punto di vista scientifico. Le caratteristiche tipiche di questo modello ormai esistente da qualche decennio sono due: la prima di essere spesso in un ambito di social hosting che prevede finanziamenti o sussidi anche pubblici, e secondo è che la comunità di persone che decide di andare a co-abitare preesiste rispetto alla costruzione, che quindi viene disegnata secondo una procedura partecipata e condivisa in modo che corrisponda alle sinergie e alle relazionalità di ciò esiste ed è ben identificata e strutturata.
In questo differisce ad esempio dal co-living che, innanzitutto è sempre un’iniziativa totalmente privata e non finanziata, e che dal punto di vista del modello abitativo invece consiste nel definire degli edifici in cui la dimensione individuale e quella comunitaria sono sì ibridate ma con un certo livello di privacy ai singoli individui ma che sviluppano anche una dimensione “comunitaria”. In questo approccio, però, a differenza del co-housing, la comunità si forma successivamente rispetto all’edifico, che ha come obiettivo anche progettuale proprio quello di, in un certo modo, favorirne la formazione. La “promessa di socialità” diventa infatti il principale contenuto della comunicazione del co-living, orientata generalmente a giovani professionisti urbani i quali, appunto, sono nella fase della vita in cui si gettano le basi per la propria rete relazionale come asset umano e professionale. Questo però non sempre si avvera e il successo dei diversi brand di co-living sta proprio nel riuscire ad indurre una vera comunità che spesso viene indotta “tematizzando” intenzionalmente il co-living su elementi di affinità professionale o legata a specifici interessi.
Come estremo opposto e come realtà diffusa nella quasi totalità del patrimonio abitativo esistente oggi abbiamo invece il condominio, che di fatto consente solo la massima privacy dello spazio individuale o familiare ma di fatto impedisce il nascere e il consolidarsi di quella che io chiamo “densità relazionale” dovuta in parte alle caratteristiche tipologiche dei condomini (di solito l’unico luogo di incontro tra condomini è l’ascensore) e in parte alla necessità dei vari nuclei familiari di spostarsi al cambiare delle esigenze e delle circostanze della vita.
E invece nell'housing adattivo?
L'housing adattivo rappresenta una soluzione che intende superare le criticità di tutti questi modelli e che si basa sul principio di consentire soprattutto ai nuclei familiari di adattare le dimensioni del proprio spazio abitativo alle varie esigenze nel corso della vita: esigenze di crescita nel caso di coppie giovani, ma anche esigenze di decrescita per le coppie più grandi. Questo dinamismo dimensionale si concretizza occupando o liberando porzioni dell’appartamento (stanze attrezzate che noi chiamiamo POD) che possono essere inglobati all’uso della famiglia o se lasciati liberi possono essere condivisi con dei singoli come utenze temporanee ma sempre come stanza del medesimo appartamento.
L’invenzione che consente di fare questo è costituita da una particolare soluzione tecnologica brevettata che consente il disimpegno variabile, l’estensione o la riduzione delle varie porzioni d’uso all'interno dell’appartamento per poter adeguare la sua distribuzione interna all’evolversi delle esigenze delle persone senza necessità di opere murarie invasive.
L’housing adattivo, quindi, non induce direttamente il formarsi di una comunità ma ne rafforza le basi dal momento in cui consente ai un nuclei familiari, che sono visti come la base della densità relazionale di un contesto abitativo, di non essere costretti a cambiare contesto urbano se arriva un figlio in più o se invece i figli sono andati via e ci si trova con un spazio vuoto costoso e inutile.
Il modello di Condivivere.casa implementa infine anche quelli che noi chiamiamo “spazi collabor-attivi” che sono un'evoluzione nel senso dei servizi abitativi dei vecchi “spazi comuni”. Consistono essenzialmente in uno spazio per il lavoro da remoto dei residenti e uno spazio da utilizzare per ospitare amici, feste, etc. Oltre ad una quota di costo fisso ogni utente contribuisce al mantenimento di questi spazi in misura del proprio effettivo utilizzo, dando così al vecchio canone condominiale l’aspetto di una membership legata all’utilizzo di specifici servizi.
Come si è svolta la campagna di crowdfunding per il primo edificio residenziale di questo tipo?
La campagna ha avuto una fase iniziale di euforia a causa dei primi che hanno intuito subito l’innovazione del modello a cui è seguita una fase più lenta di comprensione del modello da parte di investitori più conservativi durante la quale ci sono stati dei webinar illustrativi e una campagna informativa mirata a cui ha fatto seguito una fase finale in crescendo che ci ha consentito di raggiungere l’obiettivo e di chiudere in anticipo di qualche giorno la campagna.

Dove sorgerà il progetto e come sarà strutturato?
Abbiamo acquistato un’area in zona Viale Monza a nord di Loreto e abbiamo depositato il progetto del nostro “proof of concept”. La fase di realizzazione dell’edifico inizierà nei promisi due-tre mesi con le attività di demolizione dell’edificio esistente a cui seguiranno senza soluzione di continuità le opere di costruzione. I lavori dovranno essere completati entro la fine del 2024.

Chi vivrà in questo edificio?
Questo primo edificio contiene 15 appartamenti di cui cinque saranno “adattivi”. Come ho già detto immaginiamo che questo edificio “vivrà” assieme alla molteplicità di persone che lo abiteranno e che cambieranno le loro esigenze abitative nel corso della loro vita. Ci immaginiamo quindi una forte diversità sia in termini di generazioni (famiglie con bambini, anziani, studenti e giovani professionisti) e sia in termini di residenzialità permanente e temporanea.

Avete in programma altre campagne di crowdfunding?
Questa modalità di finanziamento oltre al risultato strettamente quantitativo nella raccolta di equity, presenta senza dubbio molti vantaggi che potremo definire collaterali. Sicuramente quello di poter diffondere capillarmente la visibilità del progetto sia come informazione nei confronti dei molti piccoli investitori che vi contribuiscono, ma anche come contenuto da poter utilizzare nella comunicazione di cui questo stesso articolo è un esempio.
Inoltre, riteniamo che sia un modello interessante anche dal punto di vista dell’inclusività intrinsecamente connessa al crowdfunding che riteniamo perfettamente in linea con le finalità sociali e culturali del nostro progetto. Molti dei piccoli finanziatori, infatti, potrebbero essere anche dei potenziali acquirenti dei singoli appartamenti. Sono questi i motivi che ci hanno convinto ad utilizzare il crowdfunding già in questa prima occasione, e credo saranno gli stessi che molto probabilmente ci spingeranno ad utilizzarlo di nuovo in futuro in occasione delle replicazioni del nostro modello che intendiamo realizzare a Milano ma anche in altre città italiane e all’estero.
per commentare devi effettuare il login con il tuo account