
Per investire non serve essere dei guru della finanza, quanto piuttosto non avere timore di chiedere informazioni aggiuntive soprattutto quando si stanno per prendere decisione relative ai propri risparmi. L’ignoranza può infatti costare molto cara, come nel caso dei “certificati”: con questo termine si possono indicare strumenti molto diversi tra loro in termini di funzionamento, rendimento, rischiosità e persino tassazione.
Esistono i Certificati di Credito del Tesoro ( i CctEu), i certificati di deposito e i certificati di investimento, solitamente indicati con il termine inglese di “certificates”.
I “certificati” rappresentano il caso forse più eclatante di “false friend” italiano: così come in inglese i “falsi amici” sono dei termini che appaiono molto simili a livello fonetico e ortografico in due lingue diverse, ma che hanno significati differenti, allo stesso modo nella finanza ci troviamo davanti a una parola che può generare impatti ben diversi sulle tasche degli investitori.
Certificati a basso rischio e a bassa tassazione: i CCTeu
I CCT, i Certificati di Credito del Tesoro, sono titoli di Stato: per la precisione si tratta di titoli obbligazionari emessi dal dipartimento del Tesoro del ministero dell’Economia e delle Finanze. Rispetto ai più noti Bot e Btp che offrono cedole fisse, quelle dei CCT sono variabili.
Dal 2010 però, non possiamo più parlare di CCT bensì di CCTeu, i Certificati di Credito del Tesoro indicizzati all'Euribor che ne hanno preso ufficialmente il posto.
La differenza rispetto a quelli precedenti consiste nel parametro e nelle modalità di indicizzazione del titolo. Le cedole semestrali dei vecchi CCT erano legate al rendimento dei Bot a 6 mesi dell’asta immediatamente precedente lo stacco della cedola mentre le cedole dei nuovi CCTeu sono legate al tasso Euribor a 6 mesi (rilevato due giorni lavorativi prima dello stacco della cedola).
A determinare le cedole del CCTeu è quindi la politica monetaria della Banca Centrale Europea. In pratica, in modo simile a quanto avviene per i mutui variabili, anche nel caso dei Cct è impossibile sapere in anticipo a quanto ammonteranno le cedole nel corso degli anni.
Tecnicamente ogni sei mesi il titolo corrisponde una cedola determinata dalla somma di due componenti:
- Un elemento variabile, pari al tasso Euribor a sei mesi rilevato in momenti predeterminati;
- Un margine prefissato, che resta uguale per tutta la durata del titolo e che va sommata alla componente variabile.
La cedola variabile del CCTeu rende questi titoli relativamente meno rischiosi dei Btp di pari durata. Il motivo è semplice: le variazioni nei tassi d’interesse incidono sui prezzi dei titoli di Stato in modo differente se la cedola è fissa ( Btp), oppure variabile ( CCTeu).
Il CCTeu adegua le sue cedole ai tassi d’interesse: se questi ultimi salgono, anche la cedola del CCT aumenta (pur con un po’ di ritardo) e viceversa. Pertanto, il prezzo del CCT è meno sensibile e volatile in relazione all’andamento dei tassi. Questo è un vantaggio se si temono imprevisti che potrebbero costringere l’investitore a vendere in anticipo il suo titolo a condizioni di mercato non favorevoli.
A chi conviene investire in CCTeu
Per quanto non esista una risposta univoca, dato che dipende dal profilo di rischio e dall’orizzonte temporale dell’investitore, vi sono dei casi specifici in cui è possibile suggerire l’inserimento in portafoglio di un CCTeu senza incertezze.
Basti pensare che il tasso Euribor a cui sono indicizzati i CCTEu è lo stesso tasso di riferimento al quale sono agganciati i mutui a tasso variabile. Il fatto che anche i nuovi CCT siano ancorati a questo tasso di permette di gestire i rischi quando ci si è indebitati con un mutuo a tasso variabile. Infatti, se i tassi, e la rata del mutuo, dovessero aumentare, anche il rendimento dei CCTeu sarebbe rivisto verso l’alto: questo compenserebbe in parte un esborso più elevato sul mutuo grazie a maggiori cedole.
Per quanto riguarda la tassazione, al pari dei Btp, i rendimenti dei CCTeu sono soggetti a un’aliquota ridotta al 12,5%, di gran lunga più bassa rispetto al 26% applicata agli altri titoli e alle altre tipologie di certificato, i certificati di deposito e i certificates.
Certificati di deposito: cosa sono e come funzionano
I certificati di deposito sono strumenti finanziari emessi dalle banche e funzionano essenzialmente come un deposito a termine. Ne esistono diverse tipologie: a tasso fisso, variabile o con premio finale.
Un certificato di deposito permette di depositare una somma di denaro per un periodo di tempo specifico, e in cambio di ricevere un determinato tasso di interesse. I certificati di deposito hanno una durata prefissata, chiamata “termine”, che può variare da pochi mesi fino a diversi anni. Alla scadenza si riceve il deposito iniziale più gli interessi maturati.
Fra un certificato di deposito e un normale conto deposito esistono poche differenze di funzionamento ed è proprio per questo che il secondo in tempi recenti ha preso piede sulla scia di campagne pubblicitarie di ampia diffusione. Attualmente sono davvero molto poche le banche che continuano a proporlo.
La differenza sul piano teorico tra i due strumenti si riferisce alla possibilità o meno di ritirare la liquidità prima della scadenza. Il Certificato di Deposito non offre la possibilità di effettuare lo svincolo totale o parziale dell’importo versato prima del termine. Il conto deposito oggi invece è liquidabile in ogni momento: è possibile estinguerlo anticipatamente pagando una penale che non può, in nessun caso, superare l’importo degli interessi riconosciuti. In questo modo, il capitale investito è garantito anche in caso di svincolo anticipato delle somme.
I certificati di deposito e i conti deposito sono tipologie di prodotti a basso rischio grazie alla garanzia fino a 100.000 euro offerta dal Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi. Sul tasso lordo si applica su entrambi una ritenuta fiscale pari al 26%.
Certificates, largo alla “diversificazione”
Nel mondo della finanza i certificati a cui ci si riferisce parlando di investment “certificates” sono strumenti molto sofisticati, ideati per cogliere sui mercati opportunità di investimento specifiche.
Tecnicamente sono “derivati cartolarizzati”, ovvero una combinazione di contratti finanziari incorporati in un titolo, emessi generalmente da banche d’investimento per offrire strumenti flessibili, in grado di intercettare situazioni che possono generare un rendimento in un contesto di mercati molti dinamici.
Sono negoziabili come un titolo azionario e obbligazionario ( in Italia i mercati principali sono SeDeX e EuroTLX), e possono essere indicizzati rispetto a varie tipologie di sottostanti: indici o titoli azionari, valute, commodities, etc.
Le strutture finanziarie impiegate per costruire un certificato sono molto variegate e possono esporre l’investitore all’andamento del sottostante in modi molto diversi, ad esempio partecipando solo alla performance positiva, oppure stabilendo il pagamento di premi periodici o il rimborso anticipato al verificarsi di determinate condizioni.
L’Acepi, l’associazione italiana che rappresenta i principali emittenti in Italia, ha suddiviso i certificati esistenti sul mercato in quattro categorie, a seconda della presenza o meno di protezione del capitale investito:
- Certificati a capitale protetto
- Certificati a capitale condizionatamente protetto
- Certificati a capitale non protetto
- Certificati a leva
La protezione del capitale può essere di natura assoluta oppure condizionata all’accadimento di un determinato evento. In questo caso generalmente è prevista una barriera che, se superata, fa venire meno la protezione del capitale investito, modificando di fatto il rimborso a scadenza del certificato.
Oltre a questa distinzione, ciascuna tipologia può prevedere numerose varianti in termini di funzionamento a cui sono associati diversi livelli di rischio.
Esistono, ad esempio, certificati “autocallable”, che danno diritto a ricevere il rimborso anticipato nel caso si verifichino determinate condizioni, oppure che prevedono un Cap, ossia hanno un limite predefinito ai possibili guadagni.
Investment certificates: come e perché usarli
L’elevato numero esistente di certificates può rappresentare per molti risparmiatori un deterrente al loro utilizzo: aumentando le alternative disponibili sul mercato, la selezione di quelli più adatti da utilizzare per il proprio profilo ( di rischio e di orizzonte temporale) diventa infatti ancora più complessa e non si presta al fai da te.
Dall’altra parte però, quest’ampiezza può fornire degli spunti per diversificare il portafoglio: spesso ad esempio vengono utilizzati per prendere una posizione su determinati titoli azionari o panieri di titoli senza investire direttamente in Borsa.
Le ragioni per cui potrebbe rivelarsi utile inserire un investment certificate nel portafoglio sono diverse: chi punta a rendimenti anche elevati, ed è in grado assumersi il rischio della perdita parziale o totale del capitale investito, attraverso questo strumento ha la possibilità di accedere a strategie finanziarie raffinate, abitualmente implementate dai professionisti.
A differenze di altre forme di investimento molto sofisticate, si tratta di titoli negoziabili su mercati ufficiali e regolamentati mentre l’esistenza di più tipologie di sottostanti permette di investire su molteplici asset class.
In genere la sottoscrizione dei certificati può essere suggerita in virtù della possibilità di ottenere una cosiddetta “ottimizzazione fiscale”.
Il regime applicato ai certificati, a qualunque tipologia essi appartengano, è spesso considerato vantaggioso non tanto per l’aliquota ( pari al 26% ), bensì perché i loro rendimenti, rientrando nella categoria dei "redditi diversi", danno la possibilità di compensare le plusvalenze conseguite con le minusvalenze pregresse. In pratica, utilizzando i rendimenti generati dai certificates, è possibile recuperare le perdite entro i successivi quattro anni dalla loro realizzazione.
Investment certificates: per molti, ma non per tutti
I “certificates” si qualificano infatti come prodotti a complessità molto elevata, ai sensi della Comunicazione Consob n. 0097996 del 22 dicembre 2014.
Questa “etichetta” sta ad indicare che il loro utilizzo deve rispettare determinati criteri tra cui in primis essere compatibile con le caratteristiche socio-economiche del potenziale investitore, in termini di competenza in ambito finanziario e di patrimonio minimo.
I rischi che caratterizzano questo strumento, che non è coperto dal Fondo interbancario di Tutela dei Depositi, sono diversi. Oltre ai rischi di controparte, che può comportare la perdita parziale o totale del valore dei titoli, i certificates sono soggetti agli stessi rischi dei sottostanti su cui investono, compreso, in alcuni casi, il rischio di cambio.
L’esito dell’investimento e il prezzo di mercato del certificato è influenzato dall’andamento del sottostante e dalla sua volatilità. È quindi molto difficile stimare i possibili esiti dell’investimento.
Gli investitori con un orizzonte di investimento inferiore alla durata dello strumento finanziario, devono inoltre tener conto del fatto che eventuali disinvestimenti prima della scadenza possono comportare perdite sul capitale investito. Pertanto, prima di sottoscrivere un certificato, occorre verificare insieme al proprio consulente qual è il sottostante, il meccanismo di funzionamento e quali sono i rischi associati per quel tipo di struttura.
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