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Torna di stringente attualità il termine “bad bank”, dopo le dichiarazioni del governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, nella sua relazione annuale della scorsa settimana. L’espressione è di uso piuttosto recente, anche se l’abitudine di creare delle bad bank, in varie forme, è più datata. 

Il termine è finito in auge a causa della lunga crisi cominciata nel 2007, precisamente quando il piano Paulson (dal nome dell’allora segretario del Tesoro americano Henry Paulson) introdusse il concetto negli iperliberisti Stati Uniti.

Bad bank, che cos'è e come funziona

La “cattiva banca” è un veicolo nel quale vengono convogliati gli asset considerati “tossici”, ovvero i crediti ormai ritenuti inesigibili, di un istituto, “alleggerendo” la parte buona del bilancio dello stesso, anche per evitare che pesino sulla determinazione dei parametri imposti dalle regole di Basilea 3. Vale a dire che si fa carico, stralciandoli dai conti della “conferente”, di quei crediti che si pensa di non poter incassare più: per semplici difficoltà economiche del debitore, per fallimenti, truffe, deprezzamenti o altro ancora.

In molte occasioni l’operazione si è svolta tutta all’interno di istituti privati. Un precedente c’è anche in ambito italiano. Alla fine degli anni ’90, in coda alla fase di intensa dismissione del patrimonio bancario pubblico, il Banco di Napoli, dopo un paio di anni passati sotto la proprietà di una cordata composta dalla Banca Nazionale del Lavoro e dall’Istituto Nazionale delle Assicurazioni, passò a Intesa Sanpaolo. In quell’occasione fu creata anche la Sga (Società gestione attività) che prese tutte le sofferenze dello storico istituto e, in seguito, riuscì anche a risanarle, recuperandole addirittura al 94%.

Un precedente di buon auspicio. Più che mai necessario, dato che il bilancio dello Stato non potrebbe permettersi di accollarsi pesanti perdite sui crediti che una bad bank pubblica dovesse prendere in carico.

Bad bank, le ipotesi

Sarà per questo che, nelle stanze di via XX settembre, viene adottato lo stesso nome nelle carte preparatorie che il ministero dell’Economia ha già pronte ma che, viste le trattative in corso a Bruxelles, sono ancora lungi dall’essere rese note.

Le indiscrezioni di chi ha potuto visionare il dossier dicono che lo Stato dovrebbe essere primo azionista di questo nascente soggetto, ma con una quota inferiore al 50%. Il resto dovrebbe arrivare dal sistema creditizio stesso.

La nuova Sga dovrebbe avere licenza bancaria e i crediti in sofferenza che vi verranno conferiti dovrebbero essere divisi in tre fasce: “senior”, “mezzanine” e “junior”. Ulteriore condizione è che i bond emessi dalla bad bank abbiano pubblica garanzia, per evitare che siano snobbati dai sottoscrittori. Ma questo è l’elemento che maggiormente potrebbe far drizzare le antenne alle autorità europee, che potrebbero ravvisare gli estremi dell’aiuto di Stato.

Questa è l’ipotesi che più piacerebbe alle banche medio-piccole, che hanno maggiori difficoltà a sbarazzarsi dei crediti in sofferenza. Altra possibilità è quella di conferire a una società “ad hoc” gli attivi deteriorati e operatori specializzati gestirebbero solo i crediti di una determinata banca. In questo caso la banca potrebbe avere anche una partecipazione azionaria. Ciò comporta che una parte del rischio rimarrebbe in carico all’istituto di credito.

Inoltre sarebbe molto più difficile cedere i crediti a un prezzo superiore a quello di mercato. Un soggetto almeno in parte direttamente pubblico potrebbe infatti garantire una remunerazione un po’ maggiore dell’8-15% del valore nominale che si ottiene cedendo pacchetti di crediti “tossici” (alcune banche lo hanno già fatto) a operatori esistenti sul mercato.

Secondo quanto riporta uno studio della Uilca, gli accantonamenti nei conti delle banche raggiungono appena il 40%. Resta, dunque, un 45% almeno che finirebbe per pesare sui bilanci delle banche. Proprio quello che la “bad bank” dovrebbe tendere a evitare.

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