Lo studio di Massimo Pica Ciamarra, architetto e urbanista napoletano di fama internazionale, è alla fine di una discesa che tira giù ripida, tagliando di netto una delle zone più belle della città. La nostra conversazione parte proprio dallo studio, "che risulta già sulla mappa del Duca di Noja", fino a parlare di sostenibilità, dell’area di Bagnoli e di Napoli città metropolitana.
Architetto mi racconta il suo studio? Siamo in uno dei posti più belli di Napoli e, quindi, del Mediterraneo…
Fa parte di questo edificio che ho progettato esattamente 60 anni fa, nel 1964, e che è stato completato nel 1970. Sotto il profilo formale è stato un “recupero e ristrutturazione di edificio esistente” ed è stato inserito dal Ministero della Cultura nell'elenco delle opere di architettura dal 1945 ad oggi. Si tratta di un edificio che è sulle tracce di un altro fabbricato preesistente, di cui non conosco le origini ma che risulta sulla mappa del Duca di Noja e che mantiene alcune giaciture, una volta ed alcune piccole parti: per il resto gli spazi sono completamente diversi.
Nel 1970 il nostro studio era a Palazzo Donn’Anna (uno dei più celebri della città, a picco sul mare, ndr): lì però gli spazi erano ridotti e c’erano problemi come quello del parcheggio, che spostandoci qui, dove nell’insieme abbiamo a disposizione circa 400 metri quadrati, abbiamo superato. Ma è una questione di punti di vista, sa. Pensi che una volta vennero a trovarmi degli architetti giapponesi e feci fare loro il giro dello studio: in quel periodo avevamo affittato anche altri spazi, ed eravamo 30, 35 persone. Mi fecero i complimenti ed io mi inorgoglii, tuttavia alla fine mi chiesero: «Come fai ad avere uno studio così piccolo? Noi o siamo 150 o non sopravviviamo» (ride, ndr). Il nostro è uno studio molto artigianale, fatto di amici che lavorano insieme: non è l'industria del progettare, diciamo.

Ce l’ha un angolino tutto suo qui?
Quella stanza (indica una porticina in fondo alla sala, ndr). Come le dicevo, al posto di questo edificio c’era una struttura preesistente, una masseria: quella lì in fondo era la stanza dell’asino. È una stanza molto buia, affaccia su un terrazzo ed ha una piccola finestra, quindi io lavoro un po' al chiuso, però non voglio rinunciare a vedere il Vesuvio. Mi spiego meglio: siccome una quindicina di anni fa hanno realizzato un’opera di bronzo raffigurante la mia testa, che è posizionata sul davanzale che affaccia sul vesuvio, io da lì mi illudo di vedere il panorama.

Quali sono i principi concettuali dell’architettura Mediterranea?
Il costruire è estremamente legato ai luoghi, ai contesti, alla cultura. Quest’ultima è, a sua volta, legata al clima, ad una società, ad una comunità, ad un paesaggio che, nella definizione europea, è l’intreccio tra le azioni umane. Quindi quando parliamo di condizione mediterranea intendiamo una condizione climatica particolare, l’abitudine di usare gli spazi aperti, di incontrarsi, di stare insieme: sono questi i caratteri che individuano il nostro modo di costruire. Il concetto di piazza, per esempio, è presente in Italia, in Europa e nel Mediterraneo. Ma se vado in Giappone non sanno cosa sia, se vado negli Stati Uniti non capiscono nemmeno che cosa possa essere la piazza: semmai la confondono con l'atrio di un albergo o con uno scacchiere di un fabbricato in cui ci si è dimenticati di costruire.
Ho scoperto recentemente che nell’architettura italiana esiste un polo del centro nord ed un polo del centro sud. In cosa l’approccio è differente? Quale delle due è prevalente?
Io non credo che esista questa differenza. Esistono diversi approcci. Certamente nella situazione italiana c'è una forza della condizione del nord, che è determinata dalla maggiore presenza di alcuni organizzazioni. Pensiamo per esempio ai finanziamenti che lo Stato dà alla Biennale di Venezia o alla Triennale di Milano: sono forse un po' diversi da quelli di situazioni che vediamo a Roma o in altre città del sud. Io non la vedo come una diversità legata al parallelo, ma di pensiero.
Ci sono architetti che hanno influenzato la sua formazione?
Certamente. Quando ero studente vivevamo nella contrapposizione fra l'architettura organica di Frank Lloyd Wright ed il razionalismo “lecorbusiano”. Avevamo un maggiore interesse per la mediazione, che era rappresentata da Aalto e dai finlandesi. Poi ho avuto la fortuna di entrare molto rapidamente in contatto con il gruppo del "team 10" e con gli architetti che poi avevano fondato la rivista che dirigo da 15 anni, “Le Carré bleu”: quindi i miei riferimenti sono diventati Giancarlo De Carlo, Georges Candilis, Lebbeus Woods. Cosa hanno di estremamente interessante rispetto ad altri tipi di influenze? Non sono personaggi che hanno introdotto linguaggi, hanno affermato sempre che il costruire è l'espressione di un ragionamento. Quindi diversità espressive e sostanza di un ragionamento. Non posso dimenticare che sono quelli che hanno avuto la forza in qualche passaggio di spezzare i rapporti con Le Corbusier proponendo un rapido cambio di mentalità.

Per me Napoli è storia, contaminazione permanente. Ma è come se le mancasse ancora qualcosa, un gradino, per diventare una grande città metropolitana. Se è d’accordo, quale è questo gradino?
È banale: in Italia non abbiamo nessuna città metropolitana. O meglio: in Italia abbiamo quattordici città metropolitane “sulla carta”. Lo sa quante città metropolitane abbiamo in Europa negli altri 26 Paesi? Quattordici. Vuol dire che in Italia definiamo città metropolitana una cosa molto diversa da quella che in realtà è. Di fatto noi abbiamo tre città metropolitane, cioè tre Comuni, che hanno una dimensione di più di 3 milioni di abitanti e che sono Roma, Milano e Napoli. Abbiamo anche una legge che ci dice come metterle in atto ma nessuna di queste città ha il coraggio di attuare un meccanismo di legge che c'è da ormai una decina d'anni, perlomeno. Un meccanismo che sarebbe anche semplice: il consiglio comunale del Comune capoluogo deve deliberare di dare autonomia amministrativa a parti del suo territorio. Le autonomie che sono date da queste tre città sono di carattere gestionale e funzionale, non amministrativo. Occorre questo atto dovuto per cui il Comune capoluogo si spezzi in unità di minori dimensioni.
Questo disequilibrio è anche un vulnus democratico, perché fa sì che oggi, in queste tre realtà, il sindaco della città metropolitana sia eletto da una piccola parte di cittadini. A Napoli ed a Milano è un terzo dei cittadini che abita nel capoluogo: i due terzi abitano nelle altre parti della città metropolitana. Questa situazione non si riesce proprio a risolvere. A Milano, nel gennaio di qualche anno fa, una serie di associazioni ha mandato una lettera al sindaco ed agli esponenti del governo chiedendo di risolvere il problema. Lo stesso si è fatto a Napoli. A Roma, nella campagna elettorale, è stato usato come slogan “L'ultimo sindaco di Roma”: tuttavia sul piano reale fino ad oggi queste tre realtà non hanno il pensiero metropolitano. E questa è la cosa più grave.
Negli anni ‘90 ho fatto parte di una commissione interministeriale che si occupava di definire i limiti delle città metropolitane, in particolare di Napoli. Eravamo in 25 tra architetti urbanisti, rettori, politici.
Ci sono due libri che documentano questo lavoro. Alla fine arrivammo a fare delle proposte: di queste nessuna è andata avanti. Perché? L'abbiamo capito subito: perché definire dei perimetri secondo una logica delle relazioni fra le parti -e quindi definire un vero perimetro di un'aggregazione da chiamarsi “Città metropolitana”- scombinava i bacini elettorali. E quindi, di fatto, tutte le forze politiche si sono opposte. Questa situazione è rimasta ferma nel tempo e non si è mai sbloccata.
Almeno fino 2008-2009, la materia è stata inserita in un meccanismo nel quale è stato detto che i confini delle città metropolitane coincidono con le loro province, consentendo ai Comuni della fascia di margine di uscire o di aggregarsi. Ma è una questione che non è mai stata veramente disciplinata, anche se dovrebbe esserlo, per legge, dal 2014.
I suoi colleghi finora mi hanno sempre parlato di uso sostenibile delle risorse come linee guida della nuova progettazione. Basta questo?
No, assolutamente no. Ho fatto una conferenza a Brasilia il cui titolo in portoghese era “Além da sustentabilidade”, cioè “al di là della sostenibilità”. Vuol dire che è una situazione necessaria, ma insufficiente.
La sostenibilità è un sistema complesso e non riguarda solo le questioni energetiche ma anche i rapporti umani, la socialità e tanti altri parametri: è un aspetto indispensabile, ma non è il tema base del costruire.
Io ho sostenuto, con gli amici dell’ Associazione della bioarchitettura, della quale faccio parte anche con un ruolo di vertice (è vicepresidente, ndr), che bisogna cambiare obiettivo.
Questa è una battaglia che si è fatta per 50 anni ed è stata vinta nel 2018-2019. L'attenzione a questi problemi non è l'aggiungere un componente: ma è la concezione del progetto che deve tener conto della sostenibilità. Oggi infatti, a mio avviso, il tema non è l'architettura ma sono gli ambienti di vita: ed è una questione più complessa. Dobbiamo infatti pensare al costruito come un frammento che partecipa alla costruzione di un sistema, di un ambiente ambiente di vita. Quindi il problema non è più, a mio avviso, quello di contemplare l'architettura, non è più Vitruvio con il suo la sua “utilitas”. Il problema non è la bellezza ma è l'armonia: quindi io credo che abbiamo bisogno di cambiare mentalità.

L’area di Bagnoli, a Napoli, è forse il simbolo di una certa lentezza nell'affrontare i problemi. Quale sarà il suo destino?
C'è stato un momento in cui il Comune di Napoli aveva preso una direzione positiva e questo avvenne, credo, nel 1991-92. In quel periodo si poneva il problema della dismissione: fu chiesto a Zevi di organizzare un concorso per la sistemazione di quest’area e lui scelse una dozzina di architetti in tutto il mondo. Io ebbi la fortuna di trovarmi in questo gruppo: iniziammo anche a lavorare, facemmo diversi incontri - ne ricordo uno in particolare nel Ridotto del teatro Eliseo a Roma - ma alla fine il concorso si arenò a causa delle banalità burocratiche italiane che fecero sì che l'ordine degli architetti locale sostenne che non era possibile un concorso ad inviti scegliendo gli invitati. Finì che il Comune ritirò la delibera.
Poi seguì un piano urbanistico completamente anacronistico, in cui si pretendeva di riportare la linea di costa alla mappa del Duca di Noja, del 1700 . Noi abbiamo partecipato all'ultimo concorso per la sistemazione di Bagnoli, entrando nel piccolo gruppo di selezionati con una proposta che definirei “sovversiva”: quella è un'area bloccata, a causa della zona rossa dei Campi Flegrei, quindi non è possibile realizzarvi residenze o grandi pesi edilizi. L'abbiamo immaginata in un'ottica metropolitana e senza la necessità di un parco, che può invece essere realizzato dove mancano le aree verdi, come ad Afragola o Caivano. Una risorsa di queste dimensioni deve diventare un parco agricolo produttivo visitabile - perché l’agricoltura in città è sostanziale - dotato anche di sistemi di esposizione.
Gli esperti dissero che avrebbe impegnato 80 addetti. Studiammo con colleghi paesaggisti tedeschi dei canali d'acqua percorsi da ecoboat che partivano dalla stazione della metropolitana e che arrivavano fino ad un piccolo laghetto con mercato galleggiante dei prodotti agricoli. L’idea era quindi di trovare una soluzione paesaggistica ma con uso produttivo.
Che ricordi ha dell’esperienza con la Città della Scienza?
Era un progetto di grande interesse di cui ho scarso merito, molto fu del committente, Vittorio Silvestrini. Di musei ne abbiamo tanti, ma immaginare l’arrivo dal mare ne faceva una situazione suggestiva e rara. Ma è andata come è andata: un incendio ha distrutto la struttura e poi fu anche detto che fosse un edificio abusivo, perché stava sulle aree demaniali: parliamo di una struttura del 1850. Oggi comunque ne è stato disposto l'esproprio.

Esiste un progetto a cui è più affezionato e soprattutto pensa che ce ne sia uno che è stato giudicato troppo criticamente?
Certo. Per quanto riguarda i progetti giudicati troppo criticamente le posso citare la piazza di Fuorigrotta. Avevamo vinto il concorso per la progettazione e realizzazione della sede dell’Istituto Motori del CNR, che è stato il primo edificio fatto in Italia a funzionare con il sole e con l'acqua, con un grande specchio di acqua nebulizzata per raffrescare i circuiti. Un progetto antesignano delle costruzioni sostenibili. Mentre si stava finendo questo progetto ebbi l'incarico di occuparmi anche degli spazi antistanti: ripresi una vecchia idea di pedonalizzazione dell'area, che derivava dagli studi che avevo fatto per conto dell'università per legare pedonalmente le varie parti dell'università del Politecnico. E quindi abbiamo progettato una piazza con tre obelischi.
Abbiamo disegnato uno spazio triangolare di 120 metri di lato, un triangolo equilatero, con ai vertici tre torri alte 35-40 metri. Vi può trovare la Torre del Tempo, che è una grande meridiana che sul pavimento segna le ore, poi la Torre dell'informazione, che è un'elica a spirale di legno. Poi abbiamo realizzato la Torre dell'Informazione, in alluminio: contiene la storia dell'informazione, legata alla Rai che sta lì a due passi. E c’è anche poi la Torre della Memoria, che invece è un cilindro in calcestruzzo su una ossatura con sopra una telecamera e degli schermi circolari in basso: io volevo che ci fosse un periscopio, ma non è stato possibile per motivi di budget. Pavimentazione in legno, rivoli d’acqua nella pietra legati a cellule fotovoltaiche.
Questo progetto è stato sempre fortemente criticato, perché l’accusa della cultura napoletana era di aver rotto l'ingresso della Mostra d'Oltremare, spezzando l'ingresso, in verità già toccato da una strada “provvisoria” che sta lì da trent'anni e che quindi è ormai definitiva.
Ma io non posso dimenticare che qualcuno dei miei maestri locali ha scritto che quando la Mostra d'Oltremare fu costruita, negli anni ‘39-’40, gli architetti curvarono l'asse di viale Augusto proprio per evitare la monumentalità della Mostra. Del progetto, poi, si è parlato in tutto il mondo come di una idea innovativa ed interessante, devo dire con un grande successo di critica. Tuttavia abbandonato, mal tenuto, è stato un progetto mai visto con simpatia, qui.
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