Ulteriori sviluppi sull’eventuale tassa sull’oro detenuto da privati, allo studio del Governo nell’ambito della ricerca di nuove risorse per la legge di Bilancio 2026. Dopo l’ipotesi di una tassa al 18 per cento sull’oro da investimento, il balzello una tantum per chi possiede oro da investimento sotto forma di lingotti, monete o gioielli senza documentazione d’acquisto potrebbe scendere al 12,5 per cento, consentendo, in caso di vendita, di vedersi tassata solo la plusvalenza incassata. Vediamo di che si tratta.
Come funziona la proposta
L’ipotesi è quella di varare una “procedura di rivalutazione fiscale dell’oro da investimento”. Secondo il testo, i contribuenti che al 1° gennaio 2026 detengono oro da investimento — lingotti, placchette o monete — e non dispongono di documenti d’acquisto potrebbero richiedere una rivalutazione fiscale entro il 30 giugno 2026. A quel punto, in caso di vendita, pagherebbero un’aliquota agevolata del 12,5%, anziché del 26% attualmente previsto in caso di plusvalenza non documentata.
Secondo i promotori — in particolare la Lega e Forza Italia — questa misura servirebbe a favorire l’emersione dell’oro “sommerso” e al contempo a generare gettito per lo Stato.
Quanto renderebbe per l’Erario
Basandosi su una simulazione tecnica, si calcola che con un’adesione minima del 10% la misura potrebbe fruttare tra 1,67 e 2,08 miliardi di euro. Le stime alla base del calcolo partono dall’ipotesi che in Italia i privati detengano tra 4.500 e 5.000 tonnellate d’oro, per un valore di mercato che potrebbe aggirarsi attorno ai 500 miliardi di euro. All’interno di questa massa, l’“oro da investimento” — cioè quello fisico detenuto come lingotti, placchette o monete — sarebbe stimato tra le 1.200 e le 1.500 tonnellate.
Perché lo Stato ci guadagna
Secondo la logica dei proponenti, l’operazione ha un duplice vantaggio: da un lato maggiore trasparenza, in quanto molti italiani detengono oro ereditato o acquistato anni fa senza conservare ricevute o documenti; questa misura permetterebbe di regolarizzare queste posizioni. Dall’altro genererebbe entrate straordinarie; la tassa una-tantum, se sufficientemente aderita, rappresenterebbe infatti un gettito significativo, utile per finanziare altre misure della manovra.
In più, chi aderisce e paga la tassa vedrebbe rivalutato il proprio “costo fiscale”: in caso di futura vendita, non pagherà più il 26% sul valore totale, ma solo sulla plusvalenza — ossia sulla differenza tra il prezzo di vendita e il valore dichiarato al momento della regolarizzazione.
Criticità e rischi
Non mancano però le controindicazioni. Tra i principali potrebbe esserci il rischio che la misura favorisca attività illecite, come la “pulizia” di oro di dubbia provenienza. Non è poi detto che l’adesione raggiunga il 10%: molte persone potrebbero essere riluttanti a dichiarare oro di famiglia, ereditato o considerato un bene “affettivo”. Alcuni infine vedono nell’operazione una mossa puramente “di cassa”, una nuova tassa su un bene privato e considerato nelle famiglie un rifugio sicuro, soprattutto in tempi di incertezza economica.
Il punto di vista tecnico
La procedura proposta prevede che la rivalutazione del bene sia supervisionata da intermediari autorizzati, con adeguati controlli antiriciclaggio. Secondo sostenitori della misura, questo garantirebbe non solo la regolarizzazione, ma anche una maggiore legalità nei trasferimenti futuri.
Al momento, l’emendamento è sul tavolo della maggioranza e dovrà passare l’esame parlamentare. Non è ancora scontato che la misura venga approvata, dato che il governo e il Tesoro valutano con attenzione i rischi e i benefici. Reuters ha parlato di una stima “fino a 2,08 miliardi di euro” se la misura dovesse essere approvata.
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