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Terminate le audizioni, l'iter in commissione finanze alla Camera del decreto legge di riforma del credito cooperativo si avvia spedito verso la conclusione, alla ricerca di una rapida calendarizzazione in aula, visto che il governo auspicava addirittura una (complicata) conversione prima di Pasqua.

La nuova disciplina, approntata dall'esecutivo, è imperniata attorno alla figura della “banca capogruppo”, una società per azioni con un patrimonio non inferiore a 1 miliardo di euro, alla quale gli istituti di credito cooperativo saranno obbligati ad aderire se vogliono ottenere, dalla Banca d'Italia, il rilascio dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività bancaria in forma cooperativa.

Questa rimane sostanzialmente invariata nei principi, vale a dire la territorialità (l'attività si radica in un determinato territorio e si svolge al servizio della comunità che lo compone) e la mutualità (l'attività si svolge prevalentemente a beneficio dei soci), con conservazione del coerente principio del “voto capitario” che attribuisce un unico voto a testa, a prescindere dall'entità della quota di cui si è in possesso.

Se la riforma tende a confermare il ruolo delle Bcc, è nella semplificazione della governance e nella ricerca di una dimensione maggiormente competitiva a livello internazionale che risiede la sua ratio. In quest'ottica, la società capogruppo dovrà svolgere attività di direzione e di coordinamento sulle banche che aderiscono a essa. Lo farà in base ad accordi denominati “contratti di coesione”. L'autonomia delle singole banche dipenderà dal “grado di rischiosità” delle stesse giudicato, secondo quanto riportava il comunicato di Palazzo Chigi in occasione del varo del decreto, “sulla base di parametri oggettivamente individuati”.

La maggioranza del capitale della capogruppo sarà detenuto dagli istituti aderenti. Il resto dovrà essere, comunque, in mano a soggetti “omologhi”, come gruppi cooperativi bancari europei, fondazioni, o destinato al mercato.

Sono punti sui quali la Banca d'Italia, che pure ha dato un giudizio positivo dell'impianto della riforma, ha espresso riserve. Secondo il capo del dipartimento vigilanza, Carmelo Barbagallo, ascoltato martedì dalla commissione Finanze della Camera, “la capogruppo deve poter esercitare poteri pregnanti di nomina, revoca, sostituzione degli organi delle controllate”. Mentre “prevedere tali poteri soltanto in casi 'motivati ed eccezionali' rende debole la capacità di direzione e coordinamento della capogruppo, con pregiudizio per la stabilità delle singole banche e del gruppo nel suo complesso”.

Inoltre, il dirigente di Palazzo Koch ritiene che “occorrerebbe prevedere la possibilità per le autorità (il ministero dell'Economia su proposta della Banca d’Italia) di autorizzare, per ragioni di stabilità, le Bcc a scendere sotto la soglia della maggioranza del capitale della capogruppo nei casi di difficoltà patrimoniali di rilevanza tale da mettere a rischio la stabilità del gruppo o di sue componenti rilevanti”.

Ma è soprattutto sulla cosiddetta “way out” che si concentrano le critiche non solo della Banca d'Italia, ma anche del credito cooperativo stesso. Si tratta della possibilità, per le Bcc che non intendessero aderire ad un gruppo bancario, di abbandonare la categoria per trasformarsi in società per azioni. Potranno farlo a condizione di avere riserve per almeno 200 milioni di euro e di versare un’imposta straordinaria del 20 per cento sulle stesse riserve. Una disposizione, quest'ultima, che si giustifica per via della fiscalità agevolata della quale godono gli istituti di credito cooperativo.

Bankitalia è perplessa sulla situazione di incertezza che si verrebbe a creare, nella fase di transizione, sul numero e sulle dimensioni delle Bcc che farebbero parte di gruppi cooperativi. Barbagallo ha affermato che “è auspicabile che sia chiarito il carattere eccezionale della way-out. Andrebbe prescritto che la facoltà è esercitabile in un circoscritto arco temporale e soltanto da quelle Bcc che presentano il richiesto ammontare dell’aggregato patrimoniale a una precisa data passata di riferimento”. Anche l'imposta straordinaria viene ritenuta incongrua, rispetto ai vantaggi dei quali la banca potenziale fruitrice ha goduto in precedenza.

Critiche condivise dal presidente di Federcasse Alessandro Azzi, il quale fa sapere che, stando ai parametri stabilit, sono 14 le banche di credito cooperativo potenzialmente interessate dalla “via di fuga”, anche se 11 hanno già espresso intenzione di non usufruirne.

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